Attore, regista e ricercatore della lingua piemontese: l’ultima sfida dell’albese Paolo Tibaldi è sul set di un film che racconta le donne calabresi spose ai contadini di Langa
Definito “attore e regista”, Paolo Tibaldi, classe 1989, è soprattutto un acuto osservatore del mondo che lo circonda, caratteristica che lo rende anche un po’ antropologo, linguista e autore di testi originali che ormai lo contraddistinguono, come nel format da lui inventato, “Abitare il piemontese”. Blog, rubrica sulla “Gazzetta d’Alba”, spettacolo declinato in molti modi, da molti Tibaldi è conosciuto per questo prodotto di “infotainment” nato per divulgare simpaticamente la lingua piemontese, attraverso aneddoti e modi di dire.
La sua agenda teatrale è piena di date di “Abitare il piemontese”, ma è sempre lo stesso testo?
“No, cambia di continuo. A volte va incontro a specifiche richieste tematiche, sul cibo, sul lavoro, sulla donna nella civiltà piemontese, per esempio. Altre volte deriva dalle mie osservazioni: evito di tenere sempre la stessa scaletta, così mi diverto di più, e chi torna ascolta materiale nuovo”.
È più il lavoro di un ricercatore, che quello di un attore, non trova?
“In realtà non uso un metodo scientifico, non faccio una ricerca come linguista, ma come raccoglitore di aneddoti e storie, armato di tanto spirito di osservazione e desiderio di ascoltare attivamente. Per esempio, non molto tempo fa mi sono incuriosito delle molte espressioni piemontesi che girano intorno alla morte. Quando muore qualcuno, il piemontese ti dice quand’è stata l’ultima volta che ha visto il defunto. Oppure usa l’espressione “parlandone da vivo”, per permettersi di fare osservazioni non sempre positive, il che fa quasi sorridere in quel frangente. Perché ti racconta molte cose di un modo di pensare, agire e considerare il mondo, che è tipico del piemontese”.
Per tenere fresca la parlata non smette mai di recitare in lingua, vero?
La pietra focaia del mio progetto sul piemontese è la compagnia Il nostro teatro di Sinio, che seguivo fin da ragazzino, quando per me parlare in piemontese con i nonni o i vicini di casa, a Mussotto d’Alba, era consuetudine. Per me Sinio era il paese del teatro, appena ventenne mi hanno accolto a braccia aperte, al fondatore Oscar Barile devo moltissimo, mi ha permesso di mettere in scena anche cose bizzarre”.
Dal teatro al cinema il passo non è scontato. Per quali strade?
“Ho avuto la possibilità di sperimentare il teatro dialettale come quello classico, seguire anche delle regie. La recitazione per l’audiovisivo è molto diversa da quella che si fa sul palco, ho partecipato a fiction, documentari, serie, in questo momento sono nel cast di un film che il regista di Santo Stefano Belbo Andrea Icardi sta girando sul fenomeno delle donne calabresi spose dei contadini di Langa negli anni Settanta. Dentro c’è tanta storia, c’è il balon, ci sono la città e le colline di cinquant’anni fa”.
Una ricerca storica che le appartiene, come ha fatto con Fenoglio in più spettacoli, tra cui quello in occasione del Centenario dello scrittore, “Tutti i secoli della mia infanzia”
“Una buona parte di Beppe Fenoglio è ancora da esplorare, c’è ancora molto da dire e da comprendere. Trovo straordinario che sia un mio concittadino. Si appoggia a quella piemontesità che analizzo, sotto il suo italiano eccellente c’è l’aderenza alla sintassi piemontese. Fenoglio usa la civiltà e la gente di questi posti per dinamiche archetipiche di quel che succede nel mondo, secondo quattro motori letterari: la matrice biblica e classica, le figure della donna e del bambino, il tema dell’acqua, la sopportazione come condizione di salvezza. Trovo sia sbagliato dividere Fenoglio tra racconti partigiani e racconti di Langa. Faccio tutto ciò vivendo in questi luoghi. Altrove avrei più possibilità, ma voglio rimanere qui, per coerenza. È il compromesso che ho raggiunto con me stesso: i miei contenuti sono questi, voglio fare qualcosa che mi somigli il più possibile”.